Greenwashing, il Parlamento europeo mette al bando il marketing ingannevole

La direttiva approvata ieri da Bruxelles vieta etichette e messaggi fuorvianti che fanno leva su ambientalismo di facciata e cultura “usa e getta” dei prodotti 

 

Il Parlamento europeo dichiara guerra al greenwashing, l’ambientalismo di facciata, mettendo al bando etichette fuorvianti e messaggi ingannevoli. Ieri l’aula di Bruxelles ha dato il via libera alla direttiva che intende tutelare i consumatori dalle pratiche commerciali scorrette e favorire scelte di acquisto più consapevoli. Nell’elenco Ue delle pratiche vietate finiranno anche le strategie di marketing legate all’obsolescenza precoce dei prodotti, ovvero la loro sostituzione prematura. La palla ora passa al Consiglio dell’Unione europea per l’approvazione definitiva. Gli Stati membri avranno 24 mesi di tempo per recepirla nelle legislazioni nazionali.

Messaggi accurati e attendibili

Le nuove regole mirano a rendere l’etichettatura dei prodotti più chiara e affidabile vietando l’uso di termini ambientali generici – come “ecologico” o “eco”, “naturale”, “biodegradabile” e “climaticamente neutrale” – che non sia accompagnato da prove a supporto.

Anche l’impiego delle etichette di sostenibilità verrà regolamentato, data la confusione causata dalla loro proliferazione e dal mancato utilizzo di dati comparativi. In futuro nell’Ue saranno consentite solo quelle basate su sistemi di certificazione ufficiali o stabiliti da autorità pubbliche. Allo stesso modo, la direttiva vieterà le dichiarazioni che suggeriscono un impatto sull’ambiente neutrale, ridotto o positivo in virtù della partecipazione a sistemi di compensazione delle emissioni di CO2 (offset).

Parlamento Ue contro il greenwashing
Il Parlamento Ue contro le pratiche di greenwashing | Immagine  X @Europarl_IT – Rationalinternational.net

La durata dei prodotti

Altro obiettivo della direttiva è promuovere la durata dei prodotti contro l’obsolescenza precoce. In futuro le informazioni sulla garanzia dovranno essere più visibili e verrà creato un nuovo marchio armonizzato per dare maggiore risalto ai prodotti con un periodo di garanzia più esteso.

Le nuove norme vietano anche le indicazioni infondate sulla durata, le false dichiarazioni sulla riparabilità di un prodotto e gli inviti a sostituire i beni di consumo prima del necessario, come accade per esempio con l’inchiostro delle stampanti.

“Al bando la cultura dell’usa e getta”

Ci allontaneremo dalla cultura dell’usa e getta, renderemo più trasparente il marketing e combatteremo l’obsolescenza precoce dei beni. Le persone potranno scegliere prodotti più durevoli, riparabili e sostenibili grazie a etichette e pubblicità affidabili. Soprattutto, le aziende non potranno più ingannare le persone dicendo che le bottiglie di plastica sono buone perché l’azienda ha piantato alberi da qualche parte o dire che qualcosa è sostenibile senza spiegare come. Questa è una grande vittoria per tutti noi”, ha spiegato la relatrice della direttiva Biljana Borzan, vicepresidente dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici al Parlamento Ue.

L'aula del Parlamento europeo a Bruxelles
L’aula del Parlamento Ue a Bruxelles | Foto Ash Crow – CC BY-SA 3.0 DEED (Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0) – Rationalinternational.net

Il caso della fast fashion

Emblematico il caso della cosiddetta fast fashion, la moda usa e getta. Sempre più spesso le aziende dichiarano nelle etichette che i loro capi d’abbigliamento sono prodotti in modo sostenibile, promuovendone la presunta sostenibilità e il rispetto di migliori condizioni di lavoro. Come ha dimostrato un’indagine di Greenpeace Germania dello scorso anno, spesso dietro etichette come “eco” e “cares” si nascondono pratiche di greenwashing.

L’organizzazione ambientalista ha verificato le informazioni riportate sulle etichette degli indumenti di 29 aziende – da H&M a Zara – che aderiscono alla campagna Detox e quelle di marchi internazionali come Decathlon e Calzedonia/Intimissimi. Dall’indagine sono emersi alcuni tratti comuni, a cominciare dalle etichette presentate come certificate ma che in realtà derivano da programmi di sostenibilità aziendali, col rischio di confondere i consumatori.

Nei casi esaminati inoltre manca la verifica e la valutazione di terze parti. Allo stesso modo sono assenti meccanismi di tracciabilità delle filiere. Greenpeace ha appurato anche il ricorso massiccio a termini fuorvianti come “sostenibile” o “responsabile” associato ai “materiali” che nei fatti registrano performance ambientali solo leggermente migliori rispetto alle fibre vergini o convenzionali. Ricorrente anche la “falsa narrazione sulla circolarità” dei materiali impiegati.

I marchi si vendono quindi per quello che non sono, ed evitano di pubblicare informazioni che permettano di valutare l’effettivo impatto ambientale. Ciò genera confusione nelle persone, spinte a credere di acquistare prodotti sostenibili ma che in realtà non lo sono”, spiega Greenpeace. La verità, secondo l’organizzazione, è che “la moda a basso costo si basa su un’economia lineare e il suo devastante impatto ambientale e sociale non emerge dai claim di sostenibilità dei marchi”.

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